La Valle d'Ansanto

« Est locus Italiae medio sub montibus altis,

nobilis et fama multis memoratus in oris,

Ampsancti valles.... »

 

« Vi è un luogo al centro dell’Italia circondato

da alte montagne, famoso e celebre in ogni posto:

la valle d’Ansanto….”

 

Versi 563-565 del VII Canto dell’Eneide di Virgilio

 

Se scendi vicino al lago e ti fermi a guardare, intorno vedrai un biancore di terra arida accentuata da

chiazze gialle. Non c’è segno di vegetazione se non lontano.

Qui predomina il rumore dell’acqua che “ribolle” sotto la spinta di una colonna ascendente di gas

compresso che soffia sotto il lago, altrove soffia da buche grosse, altrove ancora da forellini quasi invisibili. Perciò è rumore in qualche modo armonico, che va dal rauco al sibilo. Ma non è un soffio innocuo. Lo zolfo, nelle sue diverse componenti, le fa da padrone. Una eccessiva imprudenza potrai pagarla cara: un leggero brivido ti bloccherà il passo e potresti cadere senza possibilità di scampo. La gente dei dintorni racconta dei casi di morte e taluni si sono verificati soltanto pochi anni addietro.  

Avvertenza

Si raccomanda pertanto, ai visitatori improvvisati, di non avvicinarsi troppo al lago

ma di fermarsi sul poggio da dove è ben visibile, da dietro la palizzata, tutta l’area della Mefite.

 

 

IL LUOGO

 

Quasi per toglierti l’impressione di solitudine e di paura il panorama ti accoglie con un folto ciuffo di ginestra in fiore.

E’ una pianta nana, diversa da quella alta e profumata che inghirlanda tanti poggi solitari ed anfratti assolati.

Trovarla qui, investita continuamente dalle esalazioni gassose, è il segno che la vita animale e vegetale assedia con prepotenza

il “fosso mortale” affinchè non contamini più di tanto il territorio dell’uomo. Il punto dove sorge la ginestra, ti dà, con la

sicurezza del respiro, la padronanza sul senso di paura che ti prenderà in alcuni momenti nella valle in basso.

Puoi ammirare il panorama e sentire il rumore che si sprigiona da questo laboratorio della natura.

In primo piano c’è il lago grande (quello naturale) e altri due piccoli e circolari (fatti dagli uomini per raccogliere il fango

che veniva utilizzato per la cura della pelle). Comunque l’invaso col tempo si è ristretto per un progressivo interramento

a causa dello smottamento del terreno a monte e con l’erosione meteorica dello stesso.

 

 

 

I PRIMI ABITANTI DELLA VALLE D’ANSANTO

 

Tra l’XI ed il X secolo a.C. a sud dell’Umbria vivevano gli Ausoni, chiamati Oschi per il loro attaccamento alla terra.

Più tardi arrivarono in gran numero gli Etruschi che invasero i territori ad occidente di quelli degli Oschi.

Strette dalla pressione dei conquistatori e dal crescente numero della propria popolazione, alcune tribù

osche si videro costrette ad emigrare, fino ad arrivare sul nostro Appennino.

Ogni colonia era guidata da un animale sacro che per i Sanniti era il cinghiale e per gli Irpini il lupo, chiamato appunto hirpus.

In prossimità del luogo da noi detto “Mefite”, alcune famiglie di Irpini, attratte dal mistero del posto, si fermarono e

scelsero un sito per offrire sacrifici di animali ed oggetti preziosi di uso personale. Le condizioni di vita erano durissime

ed era davvero indispensabile l’aiuto di qualche divinità.

Col tempo i racconti di avvenimenti straordinari circolarono dappertutto e richiamarono folle sempre più rilevanti di visitatori.

Allora tutta la zona fu conosciuta come una terra sacra, una terra santa, che nella lingua latina fu “Ampsanctus” che noi diciamo Ansanto.

Di qui la valle d’Ansanto.

 

 

 

 

UNA VISITA ILLUSTRE

 

Così descrive la sua visita alla Mefite il prof. Amedeo Maiuri, Sopraintendente alle antichità della Campania,  in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 17.10.1953.

 

“…..Quando prendiamo la via del fossato ci giunge alle nari un acre sentore di zolfo: è il primo annuncio di Mefite dei” saevi spiracula Ditis” di Virgilio. Il paesaggio è ancora quello descritto dal poeta. I fianchi dei colli non serrano più d’ogni lato, di dense ombre di selva, il fondo della valle ad accrescere di religioso terrore il culto della dea infernale; lo speco, interrato dalle frane, non appare più orrendo, ma sull’opposto costone erompe ancora con fragore metallico e continuo il fiato sotteraneo con tanto impeto da sollevare zolle di terra e sassi; gorgoglia e ribolle accanto il fango viscido di una piccola palude Stige, mentre al fondo, lungo il tortuoso cammino del torrente, esala sempre il venifico fiato di Mefite.

Ci viene incontro un omino agile e vivo con un berretto da turista e un’andatura sciolta che fa un curioso spicco fra i villici e i mulattieri dell’intorno. E’ l’impresario della Mefite, appaltatore del fango che serve a curare i poveri malati che hanno fede nella dea della valle d’Ansanto.

Scendiamo con la sua guida nel vado della morte. Oggi Mefite è valicabile. Il vento di ponente che soffia impetuoso caccia l’anidride carbonica per il canalone del torrente e la disperde su per i costoni del monte. Se il vento cessasse, ogni sosta potrebbe essere mortale. Ma la morte è presente nelle spoglie degli uccelli e degli animali che coprono il letto del torrente e il terreno intorno. E’ il vero Açrnon secondo la popolare etimologia che davano gli antichi dellAverno: nessuno uccello poteva volarvi impunemente al di sopra; …..Federico raccoglie un pennuto tra le pietre del torrente e ne apre le ali nere: è una civetta con i grandi occhi appannati a cui non è giovata neppure la parentela con gli spiriti del male e della notte. E dovunque sul fondo e sulle pietre è uno sterminio di animali morti. ….

 

Ma dov’era il delubro della dea che per concorde testimonianza aveva qui culto solenne? Più che tracce di edifici all’intorno, sono stati raccolti e si raccolgono sul fondo del fossato tracce di offerte e di vittime sacre: erano le offerte e le vittime che i devoti gettavano nella fossa mortifera perché la dea si placasse; e le vittime non erano sgozzate, si lasciava che la stessa dea le uccidesse.Tremendo culto della tremenda dea della morte.

Federico con la sua zappa affronta a colpi vigorosi il fondo del torrente ed ecco apparire, impastati nella mota vischiosa, pezzi di ceramica e ossa d’animali lucide annerite come pezzi d’ebano. Prima che nuove frane ricoprano forse per sempre il torrente, bisognerà tentare di strappare il mistero di Mefite. Federico, il Caronte di Mefite, e l’arciprete ( ndr. don Nicola Gambino), dotto e pio presbitere di Santa Felicita, possono fare il miracolo. E’ da attendere solo che il vento di ponente continui a soffiare nel vado della morte.   

 

 

IL TEMPIO

 

Nei tempi antichi il tempio era un elemento indispensabile nella pratica della religione. Era infatti la casa della divinità.

Per la Mefite la nascita del culto ebbe un cammino inverso. Dapprima il vistoso fenomeno naturale fu interpretato

come la manifestazione della divinità: la dea Mefite.

Con il suo potere, del quale forniva una prova così evidente, veniva

incontro a tutti bisogni del popolo: proteggeva gli uomini, le donne, i guerrieri, i pastori, gli agricoltori.

 

Per tale ragione ne raccoglieva la preghiera continua e accorata.

Tutto questo portò in un secondo momento a costruire una casa per l’immagine, ossia il tempio vero e proprio.

Naturalmente fu scelto un luogo elevato, assolutamente sicuro, con una strada di accesso piuttosto comoda ed un

collegamento viario con l’atra sponda del torrente. Qui sul pianoro del lago il devoto si lasciava investire dalla

rumorosa prepotenza dei gas e dell’acqua davanti alla quale ogni uomo si sente impotente e senza difesa.

Questo tempio fu localizzato già dal Santoli verso il 1780 ed è stato confermato dagli scavi archeologici di quarant’anni fa.

 

 

 

COME SI SVOLGEVA UNA FESTA DI MEFITE

 

Così immaginava una festa presso il Santuario della Mefite, nel periodo del suo maggiore splendore tra il V secolo a.C.

e il I secolo d.C., don Nicola Gambino il maggiore studioso della Mefite dopo Vincenzo M. Santoli.

 

“…..Servio, nel commentare i versi di Virgilio relativamente alla valle d’Ansanto, affermava che le vittime non erano uccise, ma accostate ai posti più pericolosi e lasciate soffocare dai gas esalanti dalle fenditure del suolo. In quale epoca dell’anno si facevano i sacrifici più grandi e col concorso di numerosi pellegrini? Probabilmente in luglio, al termine della mietitura. Forse sarà stato proprio il 10 luglio che i cristiani hanno conservato come data, ma dandogli una destinazione ed uno spirito nuovo ossia cristiano con la venerazione dei santi martiri del giorno.

Ecco come vedevo quel giorno di festa a Mefite in uno dei miei solitari vagabondaggi nella zona.

I diligenti campagnoli, assecondati dalla stagione proprizia, avevano affrettato la mietitura per essere liberi nella grande festa di Mefite del 10 luglio. Mancavano ancora due giorni alla data e già comparivano i primi pellegrini, i più fortunati. Il giorno nove invece diventavano folla. Dalle prime ore fine al tramonto arrivavano nelle maniere più diverse: carri adorni con festoni di rami e di spighe e carichi di vecchi e fanciulli; cavalcature dalle ampie sporte dalle quali si affacciava un capo ricciuto di bimbo o sporgeva l’involto del pane; gente a piedi e raggruppati secondo il paese di provenienza. Coprivano le vie, si snodavano lungo i sentieri e poi imboccavano gli ampi tratturi. Cantavano, rispondendo in coro al verso del capo della comitiva. Ripeteva egli i canti della sua terra o anche si improvvisava poeta, dando un verso ai sentimenti spontanei dei pellegrini. Erano ormai migliaia.

Al calare della sera si accesero i fuochi, i canti si attenuarono ed all’ombra degli alberi o nei campi di paglia o intorno alle case dell’altura uomini e bestie, stanchi della via, presero sonno. Era però un’attesa, perciò anche la luna nel cielo veniva sollecitata ad affrettare il suo cammino per dar posto all’alba. Quando giunse trovò tutti svegli e pronti a scendere nella valle, nel recinto sacro del tempio della Mefite. Erano venuti per vedere la dea dei grandi prodigi, per assistere ai sacrifici.

Si accalcarono sul rialto della riva del lago, nei pressi del tempio, dove l’altare era al cospetto del fosso rumoroso.

Si attese al canto di inni, accompagnati dallo strepitio dei flauti e delle trombe, furono portati innanzi gli animali del sacrificio. Una pecora e un toro vennero trascinati avanti dai vittimari robusti. Scesero verso il lago. Al cupo sbuffare delle fenditure si sovrappose il muggire delle bestie inquiete a mano a mano che l’ambiente diventava irrespirabile. Furono spinte sempre più avanti. Il canto zittì. La folla cessò il mormorio delle invocazioni. Allorchè gli animali soffocati si abbatterono al suolo con l’ultimo debole mugolo, tutti allibirono, trattennero il respiro. Poi, quando i vittimari alzarono le braccia in segno che le vittime avevano esalato l’ultimo respiro, esplosero gemiti di soddisfazione. Fu quasi il grido unanime di tanti cuori in attesa davanti alla sbalorditiva potenza della dea che prendeva visibilmente parte al sacrificio. Quelle migliaia di persone erano venute per quel momento. E furono come ghermite da una invisibile forza che le trasferiva di colpo in un mondo diverso, arricchito di fascino e di mistero, facendo dimenticare per un istante le lotte e i dolori della vita sociale e l’angoscia di un incerto futuro minacciato dal balenio di spade e intristito dal gemito di feriti. Fu un momento consolatore pur nella sua breve durata.

Il sacrificio proseguì tra i canti e le preghiere, mentre si osservava il cuore delle vittime per trarne favorevole auspicio e mentre sull’altare bruciava un gran fuoco che consumava le vittime. Il fumo si levava in alto, disperdendosi verso le nuvole del cielo, svanendo come i desideri della folla orante. Seguì l’offerta dei voti: si facevano avanti numerosi pellegrini ad offrire statuette di argilla, di bronzo, di legno. Chi offriva le primizie dei campi, chi una tabella con la scritta di ringranziamento. La cerimonia e le preghiere si protassero fin verso mezzogiorno.

Allorquando il sole si arroventò nel cielo e la calura cominciò a rendere insopportabile il fetore della valle, la folla diradò, prese la via del ritorno. Lentamente si snodò la lunga fila dei pellegrini e delle bestie sul tratturo. Le impressioni del sacrificio erano cose che ognuno serbava nel suo intimo e ad esse si rivolgeva pensoso nel cammino di ritorno. In ciascuno ingigantiva una speranza: essere esauditi dalla dea potente.”    

 


I REPERTI ARCHEOLOGICI

 

I reperti più significativi rinvenuti durante gli scavi alla stipe votiva della dea Mefite oramai sono conosciuti

dall’archeologia internazionale e le loro fotografie appaiono nelle pubblicazioni specializzate.

Si trovano tutti nel Museo provinciale di Avellino dove sono certamente i pezzi più ammirati e di maggior pregio.

Tra i reperti più significativi sono da menzionare: le statue lignee risalenti al periodo dell’influsso della

cultura greca arcaica e databili VI secolo a.C.; statuine fittili integre, tra le più espressive una statuetta femminile

a tutto tondo che presenta affinità per il panneggio ad un tipo frequente in ambiente italico che trova le sue

origini nel mondo greco; due figure di Athena in piedi che sono facilmente databili nel V secolo a.C.

che si presentano modellati in loco; molto interessante una collana d’ambra sia per la sua bellezza che per

la rarità della lavorazione artigianale, databile VI sec.; sono da segnalare, altresì, statuine fittili raffiguranti Ercole,

Afrodite, Eros, bronzetti, terrecotte e monete provenienti da varie zone commerciali, fibule d’oro, tronetti in legno, coppe sacrificali ecc.  

  

Il tempio della dea Mefite fu considerato dagli antichi Irpini come il centro religioso della tribù.

Perciò il giorno della maggiore affluenza al culto coincideva anche con una specie di assemblea generale della confederazione irpina.

Naturalmente un tale afflusso di gente si poteva ottenere solo d’estate e più probabilmente nella prima decade di luglio, a mietitura ultimata.

Con la cristianizzazione della popolazione si ebbe l’abbandono del tempio e del culto.

Però, siccome è difficile distruggere delle consuetudini secolari, la chiesa sostituì l’oggetto del culto ed i gesti più significativamente pagani.

Così una festa cristiana sostituì una festa pagana. In qualche luogo si utilizzò anche il vecchio tempio adattandolo ad

accogliere una comunità cristiana per svolgervi le funzioni della nuova fede.

Si suppone che nella Valle d’Ansanto sia avvenuta una cosa simile. Il tempio della Mefite, per la posizione

ravvicinata al lago considerato “luogo sacro”, venne abbandonato o addirittura distrutto.

Venne così costruita una chiesetta sulla collina dove si estendeva il villaggio, dedicata ai martiri che la chiesa romana

venerava il 10 luglio. Questi sette martiri ci vengono presentati, dalla tradizione antica, come i figli di Santa Felicita.

Ed il medesimo luogo, il 10 luglio, continuò ad essere frequentato da numerosi fedeli di culto cristiano.

La chiesetta originaria fu eretta, molto probabilmente, nel IV secolo, benchè di cristiani ve ne furono già dal secolo precedente.

Vicende rovinose costrinsero gli abitanti a ricostruirla numerose volte a seguito di terremoti, di guerre o di altre calamità naturali.

Nel periodo longobardo, al più tardi nel secolo IX, la collina rocciosa dell’attuale Rocca San Felice venne fortificata militarmente.

Gli abitanti di Santa Felicita vi trasferirono le case, ma la chiesa rimase nello stesso luogo nonostante che per un lungo

periodo sia stata l’unica costruzione in una vasta campagna.

 

 

VINCENZO MARIA SANTOLI

 

Teodoro Mommsen nel suo viaggio in Irpinia scrisse parole di elogio per Vincenzo Maria Santoli.

Lo collocò tra i principali autori dichiarandolo scrittore degno di fede per il suo acume di osservatore

e di studioso documentato delle antichità classiche.

La sua opera più importante è senz’altro “De Mepfiti et Vallibus Anxati”, frutto delle sue ricerche

archeologiche nella Valle d’Ansanto. Fu un lavoro preparato pazientemente nel tempo che

risiedè a Rocca San Felice come arciprete. L’opera contiene tutto quello che è riuscito a sapere

della Mefite: zona archeologica, ma pure un fenomeno naturale di grande interese scientifico e turistico.

Il libro valse, infatti, a richiamare l’attenzione dei dotti sulla ubicazione esatta dell’Ansanto e sul culto

alla dea Mefite ivi sviluppatosi. Il Santoli aveva fatto una cospicua raccolta di monete, bronzetti,

statue fittili, bolli, vasi ecc. e le fece conoscere agli studiosi, che pur conoscevano la Valle d’Ansanto

per via della descrizione di Virgilio (Eneide VII, 562 e segg.) ma non riuscivano a stabilire l’esatta ubicazione.

Egli volle corroborare i ricordi degli scrittori latini con i rinvenimenti archeologici.

Nacque a Rocca San Felice il 24 maggio1736 e morì a Sant’Angelo dei Lombardi il 10 febbraio 1804.

 

 

 

 

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